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Innovazione nel rapporto scuola-istituzioni-imprese: una necessità per la Città Metropolitana di Bologna


Esistono casi virtuosi, come quello della Renner di Minerbio, ma serve una visione sistemica: ogni parte interessata si deve attivare per costruire un percorso a vero valore aggiunto sociale

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di Maurizio Morini, innovation manager


Nella Città Metropolitana di Bologna – area dinamica, ricca di competenze e storicamente attenta al dialogo tra pubblico e privato – si avverte con forza la necessità di una profonda innovazione nei rapporti tra scuola, istituzioni e imprese. A fronte di un mercato del lavoro sempre più segmentato e in rapida evoluzione, le imprese lamentano da tempo la difficoltà a reperire personale qualificato e giovani disponibili ad accettare le condizioni di impiego oggi offerte. Questo scollamento non è un dato isolato, ma il sintomo di un disallineamento più ampio tra sistema educativo, esigenze produttive e progettualità territoriale.

Un nuovo patto per il futuro dei giovani

La questione non è solo economica: è culturale e sociale. Serve ripensare il sistema educativo come infrastruttura di coesione, non solo come luogo di istruzione. La scuola deve tornare a essere un bene comune, un nodo generativo capace di tenere insieme formazione, cittadinanza e lavoro. E per farlo occorre costruire una comunità educante, nella quale tutti – istituzioni, famiglie, aziende, terzo settore – si sentano corresponsabili della crescita delle nuove generazioni.

Il caso Renner-Cnos-Fap: un modello virtuoso

Un esempio concreto di questa visione è rappresentato dall’esperienza dell’azienda Renner di Minerbio, in collaborazione con il Centro di Formazione Salesiani Cnos-Fap di Castel de’ Britti. Insieme, hanno attivato un percorso per l’inserimento lavorativo di giovani – in particolare provenienti dall’Africa – che prevede non solo la formazione professionale, ma anche la garanzia di un alloggio a prezzo calmierato. Un gesto concreto che risponde a una doppia urgenza: la mancanza di manodopera specializzata e il bisogno di accogliere in modo dignitoso chi arriva per contribuire allo sviluppo del territorio.

Il nodo dell’ospitalità si dimostra qui centrale: senza un’adeguata politica di accoglienza, le buone intenzioni si infrangono contro la realtà. E senza un contesto educativo e professionale integrato, si rischia di alimentare marginalità invece che inclusione.

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Dalla denuncia all’azione: costruire insieme soluzioni territoriali

Non basta però un caso virtuoso: serve una visione sistemica. Le imprese devono smettere di limitarsi a denunciare la “mancanza di giovani volenterosi” e iniziare a investire con coerenza in processi educativi condivisi. Istituzioni e scuole, dal canto loro, devono aprirsi di più al mondo produttivo, senza rinunciare alla loro funzione critica e formativa.

Per questo si propone un percorso biennale di sviluppo territoriale articolato in fasi:

– Mappatura partecipata dei bisogni e delle opportunità esistenti, ascoltando scuole, imprese, giovani e famiglie;

– Attivazione di laboratori territoriali in cui gruppi di lavoro misti – composti da docenti, imprenditori, amministratori, studenti – elaborino micro-progetti concreti;

– Sperimentazione di pratiche condivise, come stage, laboratori intergenerazionali, percorsi di educazione al lavoro e alla sostenibilità;

– Valutazione, documentazione e rilancio, per imparare dall’esperienza e dare continuità alle azioni più efficaci.

Formazione e lavoro: la sfida dell’orientamento

Un nodo fondamentale riguarda l’orientamento. Troppi ragazzi e ragazze entrano nel mondo della scuola senza una reale conoscenza delle opportunità e dei percorsi professionali esistenti. Troppo spesso le famiglie si affidano a narrazioni generiche (“devi fare il liceo”) senza tenere conto dei talenti specifici e delle reali opportunità occupazionali. Serve invece un orientamento continuo, personalizzato e informato, che valorizzi sia i percorsi liceali sia quelli tecnici e professionali, senza pregiudizi.

In questo senso, la costruzione di una comunità educante può favorire il superamento di stereotipi, rafforzare l’autostima dei giovani e stimolare un dialogo più efficace tra scuola e impresa, capace di generare percorsi formativi con esiti professionali realistici e gratificanti.

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Un patto educativo territoriale come cornice politica

Per dare forza a questo processo è utile prevedere la firma di un patto educativo territoriale, sottoscritto da tutti gli attori: scuole, comuni, Città Metropolitana, imprese, associazioni, sindacati. Un documento simbolico ma anche operativo, che dia il senso di un impegno reciproco e duraturo. A supporto del patto, si potrebbe istituire una cabina di regia inter-istituzionale, per coordinare le azioni e monitorare i risultati.

Tecnologia e media come strumenti di coinvolgimento

Anche la tecnologia può essere una leva fondamentale. Piattaforme digitali collaborative, podcast, documentari partecipati, canali social ben gestiti possono aiutare a raccontare il valore dei percorsi messi in campo, a coinvolgere i ragazzi e a documentare le buone pratiche. I giovani devono essere parte attiva di questo cambiamento: non semplici beneficiari, ma co-protagonisti della trasformazione.

Conclusione: l’educazione come investimento collettivo

In definitiva, la questione non è solo tecnica o occupazionale: è politica e culturale. Se vogliamo che la Città Metropolitana di Bologna resti un territorio vivo, inclusivo e innovativo, dobbiamo investire nella scuola come bene comune, riconoscendo che ogni euro speso in educazione è un euro investito nel futuro di tutti.

Costruire una comunità educante significa superare la logica della delega per abbracciare quella della corresponsabilità. Significa accettare che la formazione di una persona – di ogni persona, anche di chi arriva da lontano – non riguarda solo la scuola, ma l’intero ecosistema sociale. E che solo insieme possiamo costruire le condizioni per un futuro in cui il lavoro sia dignitoso, l’apprendimento continuo e l’inclusione una realtà concreta, non solo un’intenzione.




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