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La vera partita è sulla produttività


Tutti guardano ai dazi. Ed è normale che oggi sia così. Ma la vera partita nel lungo periodo si gioca su un altro terreno di competitività: “Tra la fine del 2019 e il 2024 la produttività è cresciuta dello 0,9% nell’area euro. Negli Stati Uniti, invece, è aumentata del 6,7%”. E nei confronti della Cina il rapporto di forza non è migliore. Il gap sta aumentando. Questo il vero campanello d’allarme a cui richiama tutti, imprese in primis, Rodolfo Helg, Professore ordinario di Economia politica dell’Università LIUC di Castellanza.

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Professor Helg, nell’attuale scenario geopolitico, caratterizzato da conflitti e guerre commerciali, quali sono i principali effetti sulle imprese manifatturiere italiane ed europee?
Le aziende stanno vivendo un periodo molto incerto. Negli ultimi anni hanno dovuto affrontare diversi shock: prima la pandemia, poi i conflitti che attualmente stanno coinvolgendo, da una parte, Russia e Ucraina e, dall’altra, Israele e Hamas. Oltre alle tensioni geopolitiche tra Europa, Stati Uniti, Cina e il Cremlino. Un contesto instabile che, con la seconda Amministrazione Trump, si è aggravato ancor di più. Già le prime minacce americane sull’introduzione dei dazi, infatti, hanno avuto un effetto immediato sui mercati finanziari e per alcune imprese anche sulle strategie produttive. Le tariffe doganali una volta adottate comportano dei costi sia per il Paese che li impone (aumentano i prezzi per il consumatore), sia per il Paese che li subisce (si riducono le esportazioni). A peggiorare ulteriormente la situazione, le possibili ritorsioni da parte dei Paesi colpiti dai dazi, con il rischio che si inneschi una vera e propria guerra commerciale. Questi alcuni dei principali effetti sulle realtà manifatturiere italiane ed europee.

Possiamo, quindi, definire quella attuale una fase di deglobalizzazione? Quali sono le conseguenze sulle riorganizzazioni delle filiere produttive internazionali?
Più che di deglobalizzazione, noi economisti parliamo di “slowbalization”: una globalizzazione che rallenta. Una nuova fase storica, intermedia, in cui il commercio mondiale cresce in modo più moderato rispetto al Pil globale. Le imprese italiane, oggi, stanno cercando di adeguarsi a questi mutamenti: alcune riportano parte della propria produzione industriale più vicino, per esempio in Europa o nei Paesi limitrofi (si parla di near-shoring), cercando in questo modo di ridurre i rischi. Se gli Stati Uniti continueranno su questa linea, molte aziende potrebbero decidere di accorciare le proprie filiere, per proteggersi da future barriere commerciali.

Alcuni comparti sono più esposti di altri a questa fase riorganizzativa? Secondo lei, quali sono gli scenari che caratterizzeranno l’industria nel prossimo futuro?
La vocazione internazionale delle filiere italiane varia da comparto a comparto. Secondo l’Istat, le più internazionalizzate sono: quelle del settore delle infrastrutture e del trasporto aereo (circa il 65% delle imprese opera anche all’estero); quelle del trasporto su rotaia e su acqua (circa il 60%); quelle dell’energia e della farmaceutica (circa il 50%). A breve termine è la politica commerciale degli Usa che definirà gli scenari futuri per le imprese. A metà del mese di marzo, per esempio, i primi settori ad essere stati colpiti dai dazi del 25% sono stati quelli dell’acciaio e dell’alluminio. Ad inizio aprile, invece, è stata la volta delle automobili (sempre con imposte doganali del 25%), poi è stata la volta dei dazi a pioggia (20% su tutti i prodotti Ue), con il piano di “dazi reciproci” su un’ampia gamma di merci importate dagli Stati Uniti. Qualora queste misure vengano percepite come permanenti, alcune aziende potrebbero adottare come strategia quella di trasferire parte della produzione dall’Italia agli Stati Uniti. Di conseguenza, le filiere cambierebbero, in parte, configurazione.

Su che livelli si gioca la politica industriale?
La politica commerciale, di cui i dazi sono uno degli strumenti principali, è parte integrante della più ampia politica industriale. In questo contesto, è l’Unione Europea, insieme alla Commissione, a giocare un ruolo da protagonista. In risposta alle tasse doganali imposte dagli Usa su acciaio, alluminio e automotive, è stata la Commissione a decidere le contromisure da adottare. Se, però, si considera la politica industriale in senso più ampio, includendo anche strumenti come sussidi, incentivi fiscali o finanziamenti pubblici, emerge una situazione più frammentata: alcune misure vengono adottate a livello comunitario, molte invece restano ancora sotto il controllo dei singoli Stati nazionali. Per evitare effetti distorsivi, gran parte degli economisti concorda sulla necessità di una politica industriale più integrata. Una politica industriale che sia europea. Solo in questo modo, le imprese manifatturiere potranno giocarsi la partita della competitività a livello globale.

Professor Helg, ci sono gap tecnologici che l’Europa e le sue imprese sconteranno più di altri in futuro?
Purtroppo sì. Le imprese europee hanno perso terreno rispetto a quelle americane e cinesi. Tra la fine del 2019 e il 2024 la produttività, ovvero il valore di quanto si produce in un’ora di lavoro, è cresciuta dello 0,9% nell’area euro. Negli Stati Uniti, invece, è aumentata del 6,7%. Questo dato, riportato anche dalla Banca Centrale Europea, è molto preoccupante. In merito a questo aspetto, il Rapporto Draghi ha acceso un campanello d’allarme su come affrontare questa tematica, proponendo varie misure per cercare di colmare il gap tecnologico.

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Parliamo della filiera produttiva della difesa, particolarmente presente anche sul territorio varesino: quale scenario intravede per questo comparto?
Il riarmo, in corso in molti Paesi europei porterà a delle opportunità, economiche, per tutte quelle imprese che lavorano in questo comparto. Già oggi, per esempio, è possibile notare gli effetti sui mercati finanziari. In questo caso, possiamo parlare di una vera e propria “economia di guerra”, che investe risorse in sicurezza e in tecnologie militari.

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