Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

Oriente Occidente di Rampini | I dazi di Trump? Non fissiamoci, sono solo un sintomo. La globalizzazione era malata: indietro non si torna

Oriente Occidente di Rampini | I dazi di Trump? Non fissiamoci, sono solo un sintomo. La globalizzazione era malata: indietro non si torna


La tua casa dei sogni ti aspetta

partecipa alle aste immobiliari!

 

(Questo testo è stato pubblicato su Global, la newsletter di Federico Rampini: per riceverla occorre iscriversi a questo indirizzo

La tempesta dei dazi di Donald Trump non è soltanto un problema in sé per l’incertezza che fa regnare nel mondo. È soprattutto il segnale e la conferma di un problema pre-esistente. 




















































Con o senza i dazi di Trump, la globalizzazione era diventata insostenibile. È per questo che il mondo intero, e le imprese italiane, devono adattarsi a scenari di post-globalizzazione. Nel breve termine, si possono limitare i danni: nel caso delle imprese esportatrici italiane, per esempio, lavorando di concerto con le lobby economiche americane che premono su Trump per ottenere esenzioni, sconti, accordi e compromessi. Un disarmo negoziato sui dazi sembra possibile, al di là dello spettacolo di caos iniziale. Ma concentrarsi solo sui dazi sarebbe riduttivo. Il commercio globale era comunque malato, e non si torna indietro a quella che alcuni descrivono come un’età felice della globalizzazione.

Una conferma l’ho ricevuta da una fonte inaspettata. Ho ascoltato Ngozi Okonjo-Iweala, la direttrice generale del World Trade Organization (Wto) al Council on Foreign Relations il 23 aprile. Economista nigeriana formata al MIT di Harvard, ministro dell’Economia e delle Finanze del suo paese dal 2011 al 2015, quattro anni fa Ngozi Okonjo-Iweala è diventata la prima donna e la prima africana a guidare il Wto cioè l’Organizzazione mondiale del commercio. La si può considerare una «vittima» di Trump perché il Wto è stato delegittimato e praticamente privato di un ruolo con le mosse unilaterali del 47esimo presidente degli Stati Uniti, spesso in flagrante violazione delle regole del Wto stesso. Peraltro l’ostilità degli Stati Uniti al Wto è più antica, ci furono problemi nei rapporti tra Washington e questa organizzazione anche ai tempi di Bush, Obama, Biden. Perciò ci si potrebbe aspettare dalla direttrice di questa organizzazione un atteggiamento molto antiamericano o quantomeno anti-Trump. Sono rimasto sorpreso nel sentirle fare invece delle osservazioni equilibrate ed equidistanti. Le riassumo così, usando in maniera pressoché testuale le parole dell’economista africana:  

Abbiamo esaltato i benefici della «interdipendenza» ma ci siamo ritrovati in situazioni di iper-dipendenza: squilibrate, malsane, pericolose. Gli esempi sono variegati. Non è sostenibile una situazione in cui la produzione di vaccini è concentrata in pochissimi paesi e lo abbiamo visto scoppia una pandemia. Non è sostenibile che il 60% della produzione di microchip sia in un paese solo (Taiwan). Non è sostenibile il fatto che alcune delle maggiori economie mondiali dipendono dalle esportazioni sul mercato Usa, mentre non hanno sviluppato adeguatamente la propria domanda interna. Ha ragione l’America quando obietta al fatto che la Cina mantiene lo status di «paese in via di sviluppo» con cui entrò nel Wto nel 2001 e in virtù di questo continua a godere delle stesse clausole favorevoli che sono applicate al Mali e al Burkina Faso. La Cina può auto-definirsi come vuole, ma non può ricavare da questa classificazione dei vantaggi che sono divenuti anacronistici ed esorbitanti. E va probabilmente superato il principio «un paese un voto» per cui il Lesotho pesa quanto gli Usa in seno al Wto.

Qui sopra nel mio riassunto del suo intervento c’è un insieme di ammissioni molto oneste, su tutto ciò che è andato storto prima ancora che l’elefante Trump entrasse nella cristalleria del Wto e cominciasse a fare a pezzi tutto quel che c’era. La globalizzazione era malata di squilibri profondi; le regole del gioco erano inadatte o superate o manipolate dalla Cina; il sistema non è riformabile se non si prendono in considerazione gli interessi del compratore numero uno cioè l’America. Bisogna guardare anche oltre le barriere protezionistiche (che la Cina ha usato più di chiunque altro), bisogna occuparsi della stortura strutturale che deriva da salari e consumi artificialmente bassi con cui alcune nazioni si «obbligano» a stra-vendere all’estero accumulando avanzi commerciali.

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione

 

Su questo tema un autore che è indispensabile conoscere è Michael Pettis, ricercatore presso la Carnegie Endowment for International Peace, e docente in diverse università cinesi. Pettis è un personaggio cruciale, autorevole studioso della Cina, le sue teorie (riassunte in un libro dal titolo eloquente, «Le guerre commerciali sono guerre di classe» in cui evidenzia l’effetto del commercio estero sulla distribuzione di risorse fra classi sociali) hanno influenzato una nuova generazione di economisti inclini a riabilitare certe forme di protezionismo. Questi esperti hanno avuto un ruolo altalenante su Trump, che a volte li ascolta e a volte no. 

Pettis è tutt’altro che favorevole ai dazi di Trump, come minimo pensa che siano inefficaci e gestiti male. Però è convinto che questi dazi siano il segnale e la conseguenza di una crisi, più che la causa di una crisi. Ecco alcuni estratti della sua analisi uscita sull’ultimo numero di Foreign Affairs, intitolata «I dazi di Trump e la crisi del commercio globale», dove spiega questa sua posizione.  

«Gli alti dazi annunciati da Trump il 2 aprile, insieme ai successivi rinvii e alle ritorsioni, hanno scatenato un’enorme incertezza globale. Gran parte dell’attenzione mondiale è concentrata sulle caotiche conseguenze a breve termine di queste politiche: violente oscillazioni dei mercati azionari, preoccupazioni per il mercato obbligazionario statunitense, timori di recessione e speculazioni su come i diversi Paesi negozieranno o reagiranno.

Ma qualunque cosa accada nel breve termine, una cosa è chiara: le politiche di Trump riflettono una trasformazione già in atto nel regime globale di commercio e nel mercato dei capitali. In un modo o nell’altro, era necessario un cambiamento drastico per affrontare gli squilibri nell’economia globale, accumulati nell’arco di decenni. Le attuali tensioni commerciali derivano da un disallineamento tra le esigenze delle singole economie e quelle del commercio globale. Sebbene quest’ultimo tragga beneficio da salari in crescita, che aumentano la domanda per i produttori ovunque, sorgono tensioni quando i singoli Paesi possono crescere più rapidamente espandendo il settore manifatturiero a scapito della crescita salariale — ad esempio, comprimendo direttamente o indirettamente la crescita del reddito familiare rispetto alla produttività dei lavoratori. Il risultato è un sistema commerciale globale in cui i Paesi competono, a loro danno collettivo, mantenendo bassi i salari.

I dazi di Trump difficilmente risolveranno questo problema. Per essere efficace, la politica commerciale statunitense deve o invertire lo squilibrio di risparmio nel resto del mondo, oppure limitare il ruolo di Washington nell’accettarlo. I dazi non raggiungono nessuno di questi due obiettivi.

Per capire cosa non funziona nel sistema commerciale globale, occorre considerare l’influenza dei salari sull’economia. Salari più alti sono solitamente positivi, poiché stimolano la domanda per le imprese e le incentivano a investire in efficienza, innescando un circolo virtuoso: l’aumento della domanda porta a maggiori investimenti per produrre di più con meno lavoratori, migliorando la produttività e, di conseguenza, innalzando ulteriormente i salari.

Le singole imprese, tuttavia, hanno incentivi diversi. Possono aumentare i profitti abbassando i salari. Il problema è che, sebbene salari più bassi possano giovare a una singola impresa, riducono i profitti delle altre. In un’economia in cui gli investimenti aziendali dipendono dalla domanda, se le imprese riducono collettivamente i salari, o aumentano i debiti familiari e pubblici per sostenere la domanda, oppure la produzione e i profitti complessivi calano.

Questo fenomeno vale anche per i Paesi nell’economia globale. Se la compressione dei salari rende una nazione più competitiva sul piano manifatturiero, ciò può stimolare la crescita attraverso le esportazioni. Ma se tutti i Paesi adottano questa strategia, la domanda globale cala, penalizzando tutti.

La tua casa dei sogni ti aspetta

partecipa alle aste immobiliari!

 

In un mondo fortemente globalizzato, dove alcuni Stati sono più abili di altri nel contenere i costi del lavoro, si crea un’asimmetria tra domanda e offerta di beni. Le imprese, potendo produrre dove vogliono e vendere altrove, privilegiano le economie con salari relativamente bassi rispetto alla produttività, rendendo più competitivi i prodotti fabbricati in quei Paesi. In un’economia globalizzata si può ottenere un surplus commerciale, trasferendo il danno della basso domanda interna ai partner commerciali. Per questo l’economista Joan Robinson, nel 1937, definì questi surplus commerciali il risultato di politiche “beggar-my-neighbor” cioè “impoverisco il mio vicino”.

Esistono due visioni della globalizzazione. Nella prima, le principali economie rinunciano in egual misura al controllo interno in nome dell’integrazione globale. In tal caso, gli squilibri commerciali si correggono automaticamente: un surplus fa apprezzare la valuta o crescere i salari, riducendo la competitività e riportando in equilibrio il commercio.
Ma il mondo reale segue un secondo modello. Alcune economie mantengono un forte controllo interno — gestendo i salari, i prezzi, il credito, limitando la liberalizzazione dei mercati—mentre altre si aprono completamente. I primi impongono i loro squilibri ai secondi. Se perseguono politiche industriali per espandere la manifattura, costringono i partner ad accettare una contrazione della propria industria.

Questo è il tipo di globalizzazione che Keynes e Robinson condannavano. È una strategia che può favorire le singole economie ma nuoce al sistema globale. Per salvare la globalizzazione, occorre tornare a un modello in cui si esporta per importare e gli squilibri si risolvono internamente. La soluzione è una nuova unione doganale, come quella che Keynes propose a Bretton Woods. I membri dovrebbero mantenere il commercio reciproco in equilibrio, con sanzioni per i trasgressori, e imporre barriere commerciali ai non membri per difendersi dagli squilibri esterni. Ogni Paese potrebbe seguire il proprio percorso di sviluppo, ma non a scapito degli altri. (Le economie più piccole o in via di sviluppo potrebbero ottenere deroghe parziali.)

Se questa unione non fosse possibile, il mondo cadrà nel gioco “beggar-thy-neighbor” previsto da Robinson: ogni Stato cercherà di scaricare il peso sugli altri, e, appena uno riuscirà ad aumentare il proprio saldo commerciale, gli altri reagiranno. Il risultato sarà un crollo del volume degli scambi internazionali. È questa la direzione che il mondo sembra aver preso. È questo che ha prodotto i dazi di Trump e l’aumento delle dispute commerciali globali. Fino a quando i decisori politici non modificheranno gli incentivi economici, le tensioni commerciali non si attenueranno».

27 aprile 2025

Microcredito

per le aziende

 



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

La tua casa è in procedura esecutiva?

sospendi la procedura con la legge sul sovraindebitamento

 

Opportunità unica

partecipa alle aste immobiliari.