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Ringiovanire il cervello di dieci anni: è possibile?


In un’epoca in cui la connessione costante è diventata una condizione quasi imprescindibile per la vita quotidiana, emerge una scoperta sorprendente che potrebbe ridefinire il nostro rapporto con la tecnologia e, soprattutto, con il nostro cervello. Un recente studio condotto congiuntamente dall’Università della British Columbia, in Canada, e dall’Università del Texas, negli Stati Uniti, rivela che una semplice ma radicale modifica delle nostre abitudini digitali può avere effetti straordinari sul nostro benessere cognitivo: disattivare Internet sullo smartphone per appena due settimane può ringiovanire il cervello di dieci anni.

Un passo indietro per andare avanti

I risultati dello studio, destinati a suscitare un acceso dibattito nella comunità scientifica e non solo, suggeriscono che la disconnessione temporanea da Internet – nello specifico, quella derivante dall’utilizzo quotidiano dello smartphone – può produrre benefici misurabili sul funzionamento cerebrale. Non si tratta di speculazioni, ma di evidenze concrete emerse da un’indagine empirica condotta su un campione eterogeneo di partecipanti adulti, monitorati prima, durante e dopo un periodo di 14 giorni in cui è stato loro richiesto di disabilitare l’accesso a Internet sui propri dispositivi mobili.

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Durante questo lasso di tempo, i soggetti sono stati sottoposti a una serie di test cognitivi volti a misurare parametri quali la memoria di lavoro, la capacità di concentrazione, la flessibilità cognitiva e la prontezza nella risoluzione dei problemi. I ricercatori, analizzando i dati raccolti, hanno riscontrato miglioramenti così marcati da poter essere equiparati a un “ringiovanimento” cerebrale di circa dieci anni.

Il cervello sotto stress digitale

Per comprendere appieno il significato di questa scoperta, è fondamentale esaminare il contesto neurobiologico in cui essa si inserisce. La vita moderna, dominata dalla costante esposizione a notifiche, messaggi, social media e una valanga di informazioni frammentarie, sottopone il cervello a una forma di stress continuo, che alcuni neuroscienziati definiscono “sovraccarico cognitivo”. Tale sovraccarico non solo compromette la nostra capacità di attenzione prolungata, ma contribuisce anche al deterioramento precoce di alcune funzioni cerebrali essenziali.

Secondo gli autori dello studio, il costante switching tra applicazioni e contenuti online, cui molti utenti sono abituati, è particolarmente dannoso per la corteccia prefrontale, la regione del cervello deputata alla pianificazione, al controllo degli impulsi e al pensiero astratto. La buona notizia, tuttavia, è che tale deterioramento non è irreversibile. Come dimostrato dallo studio, un breve ma deciso periodo di “digiuno digitale” può attivare meccanismi di rigenerazione neurale, migliorando le connessioni sinaptiche e restituendo al cervello un’efficienza che si pensava ormai compromessa.

Due settimane per cambiare prospettiva

Il protocollo sperimentale dello studio ha previsto un approccio semplice ma rigoroso. Ai partecipanti è stato chiesto di continuare a usare lo smartphone per le funzioni essenziali – come telefonate o messaggi di testo – ma di disattivare completamente l’accesso a Internet, eliminando quindi ogni possibilità di navigazione, utilizzo di social media o accesso a contenuti digitali online.

Dopo le due settimane, i ricercatori hanno confrontato i risultati dei test cognitivi con quelli effettuati prima dell’esperimento. Il miglioramento è stato significativo in diversi ambiti: la velocità di elaborazione mentale è aumentata, la capacità di concentrazione è risultata più elevata e, sorprendentemente, anche i livelli di stress percepito sono diminuiti sensibilmente. Alcuni partecipanti hanno riferito di aver dormito meglio, di sentirsi più presenti nella propria quotidianità e persino di aver migliorato i rapporti interpersonali.

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Implicazioni sociali e culturali

Oltre agli aspetti neuroscientifici, i risultati dello studio pongono interrogativi importanti di natura sociale e culturale. La nostra dipendenza dalla connessione perpetua è diventata quasi una condizione esistenziale, alimentata da logiche economiche, produttive e comunicative che sembrano rendere impossibile anche solo immaginare un ritorno – seppur temporaneo – al silenzio digitale.

Eppure, i dati parlano chiaro: il nostro cervello ha bisogno di tregua. Il suggerimento che emerge da questa ricerca non è tanto quello di demonizzare la tecnologia, quanto piuttosto di promuovere un uso più consapevole e sostenibile degli strumenti digitali. Inserire periodi di “disconnessione programmata” nella propria routine potrebbe rappresentare non solo un atto di autodifesa psicologica, ma anche una strategia preventiva per il mantenimento della salute cognitiva a lungo termine.

Una possibile rivoluzione nelle politiche sanitarie

Alla luce di questi risultati, non è da escludere che in futuro si possa assistere a un’integrazione di pratiche di disconnessione digitale all’interno delle linee guida per la salute mentale e cognitiva. Analogamente a quanto avviene con le raccomandazioni sull’attività fisica o l’alimentazione, i professionisti della salute potrebbero presto iniziare a consigliare pause regolari dalla connettività come strumento terapeutico o preventivo.

Alcuni istituti scolastici, ad esempio, stanno già sperimentando forme di “digital detox” per migliorare la concentrazione degli studenti. In ambito aziendale, invece, un numero crescente di imprese inizia a considerare politiche che limitino l’uso dello smartphone durante l’orario lavorativo, nella consapevolezza che la produttività non cresce all’aumentare della connessione, bensì con il miglioramento del benessere psicofisico dei dipendenti.

Una sfida personale

Se da un lato la ricerca apre orizzonti di portata collettiva, dall’altro chiama ciascuno di noi a una riflessione personale sul proprio stile di vita digitale.

Anche solo un tentativo di due settimane potrebbe rappresentare una svolta significativa. E se davvero bastasse così poco per ottenere un miglioramento così grande, forse vale la pena fare un esperimento su noi stessi. Perché, come affermano i ricercatori che hanno firmato lo studio, “non è la tecnologia il problema, ma il modo in cui la lasciamo invadere ogni angolo della nostra vita”.

Patricia Iori



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